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CAVE DI CUSA di Giorgio Maria di Giorgiole ricchezze che non conosciamo e apprezziamo
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CAVE DI CUSA

 

 

La costa trapanese è in parte costituita da tufo calcareo bianco, che assume un colore ambrato nel tempo. È la cosiddetta panchina, sfruttata per estrarne materiale da costruzione di poco costo. Talvolta questo strato si presenta in forma più compatta e d’aspetto simile al travertino. È il caso della zona di Campobello di Mazara, nel cui territorio si trovano le Cave di Cusa.

È noto che i rocchi del tempio G, sulla collina orientale di Selinunte, siano uguali ad alcuni elementi incompiuti presenti a Cusa. Il fatto che i Selinuntini vi attingessero il materiale per i loro edifici, già da solo, porrebbe l’obbligo di una visita. Ma non è questo il punto. Segesta, la Valle dei Templi, l’acropoli d’Atene, le Piramidi e gli altri siti archeologici del Mediterraneo, sono delle testimonianze affascinanti di storia della civiltà. Ma il binomio Selinunte-Cusa, è la chiave di lettura emozionale di una pagina di storia dell’uomo.

Il sito dista circa undici chilometri da Selinunte e vi si giunge da Campobello di Mazara percorrendo la SS. 113. Purtroppo gli itinerari turistico-archeologici della Sicilia occidentale raramente prevedono una sosta a Cusa: ed è un peccato. Visitare Selinunte, sconoscendo le Cave, significa fruire di un’esperienza estetica, soltanto per metà.

Cave o Rocche di Cusa è una fascia di terreno semipianeggiante, stretta fra la campagna e la parete delle Cave. Uno sterrato sbiancato dal sole, incide un percorso sinuoso nell’erba. Brusche folate di vento passano, frusciando, tra le foglie argentee degli ulivi. La vista del mare è nascosta dalla parete della cava e dal muricciolo che la sovrasta, ma se ne percepisce la presenza, dal profumo dell’aria e dalla voce incessante dell’onda. Il resto è silenzio: non quello gelido del Partenone o delle Piramidi; bensì quello struggente, carico d’attesa, che si respira al mattino in un teatro deserto o nel cortile di una scuola, un istante prima che suoni la campana dell’intervallo.

Ramuseara, Rocche calde, le chiamavano gli arabi; in estate, infatti, quando soffia lo scirocco, diventano un forno.

Il fronte d’attacco della cava, alto da cinque a dieci metri, si allunga verso occidente per più di un chilometro; ai suoi piedi, sulla destra, giace un rocchio di colonna isolato, pronto per essere agganciato e sospinto all’uscita. Più in là un altro, gigantesco, perfetto, si direbbe finito da poche ore, attende che gli si liberi la base dal suo vincolo di pietra. Intorno, il terreno reca le orme di altri elementi, trasferiti al cantiere, appena ieri. I segni sulla roccia sono fitti, puliti, freschissimi. Un monticello mostra il fianco ferito, da cui sono stati estratti dei moduli più piccoli. In fondo, l’abbozzo di un capitello si protende dalla roccia, simile alla mostruosa coppa di un dio pagano. Altri elementi emergono qua e là dalle erbacce: alcuni forati lungo l’asse, perché vi si possano infiggere i pali per il trasporto o, nel caso dei blocchi per le trabeazioni, scanalati lateralmente, per farvi scorrere le funi. Tutto è pronto, predisposto, in attesa, fissato nell’eternità da un evento improvviso, che generò il terrore e la fuga precipitosa. Forse un terremoto, o l’arrivo delle avanguardie puniche. Chissà? Da allora e per oltre duemila anni, il tempo si è fermato, alle Cave di Cusa.

Eppure, basta poco: l’istante di commozione che prelude il tramonto, un momentaneo estraniarsi dagli altri visitatori, per rendersi conto che, al di là delle apparenze, le Cave vivono e ricordano e solo gli uomini sono fuggiti, in quel lontano giorno. Scalpellini, guardiani, architetti, torneranno a popolare il luogo. E si riudrà il canto degli attrezzi, l’intercalare cadenzato dei tagliatori, i richiami dei venditori d’acqua, gl’incitamenti dei guardiani: sotto un sole cocente, abbacinante, nella polvere e nel sudore.

Le dimensioni dei rocchi variano da 2,5 a 4 m. di altezza e da 3 a 3,5 m. di diametro; la circonferenza di base si aggira sui 10-11 m.; il volume è di circa 37 mc. Attribuendo al materiale un peso di 1,8 Kg. per dmc. si ottiene un valore di 66,6 tonnellate!

Il percorso usato dagli operai, per trasportare il materiale fino a Selinunte, è pianeggiante, con una minima pendenza verso la costa, ma il suolo è sabbioso ed infido. Se si tiene conto della mole dei templi Selinuntini, del peso dei singoli elementi e della distanza del cantiere, c’è da chiedersi come abbiano risolto il problema del trasporto, gli architetti di 2400 anni fa. E probabile che si servissero della cosiddetta lizzatura, che consiste nel fare scorrere i blocchi, muniti di pattini, su rulli di legno. Oppure che ingabbiassero i moduli dentro armature sostenute da ruote alla maniera di Chersifrone, l’architetto del Tempio di Efeso.

L’archeologa tedesca A. P. Bindokat ritiene che venissero utilizzati animali da tiro per trainare gli elementi al luogo di costruzione dei templi.

Nel Museo di Castelvetrano è conservato un frammento di zanna d’elefante, trovato nei pressi delle Cave. È questa la risposta? Forse.

Un’altra attendibile ipotesi è che si trattasse, più semplicemente, di uomini: miserevoli creature abbrutite dalla fatica, stordite dai raggi impietosi del sole; i corpi segnati dallo staffile e piagati dallo sfregamento delle funi. File di schiavi aggiogati, sospinti attraverso contrade che ancora oggi recano nomi suggestivi di antiche tragedie: Trentasalme, Baglio d’inferno, Le Parche, Atria, Testa di Greco, Sette furie.

Quale sarà stato il tributo di sangue pagato agli dei?

 

Giorgio Maria Di Giorgio


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