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Selinunte , la città dannata di Giorgio di Giorgioche il prezzemolo porti sfiga?
il testo
LA CITTÀ DANNATA

(gmdg) Né la magnificenza delle vestigia, ne il loro valore archeologico, né il fascino solare del paesaggio, potrebbero cancellare o giustificare la tragica immagine storica di una città marchiata dall’infamia e dal tradimento.
Eppure, non era questo il ruolo destinatole.
Secondo Diodoro Siculo, Selinunte venne fondata da Pammilos, nel 650 a.C., per conto dei coloni di Megara Iblea e prese nome e simbolo dal prezzemolo selvatico, che vegeta abbondantemente nel sito dell’insediamento. La sua collocazione alle foci di due fiumi, il Cottone ed il Selinon (oggi Modione), all’estremo limite della zona punica, sottolineava le necessità, delle colonie greche siciliane, di assicurare sbocchi al commercio dei prodotti artigianali, soprattutto la ceramica, e di erigere un baluardo in grado di fermare il tradizionale nemico.
Nel corso del VI a.C., il rapido arricchimento dovuto alla felice posizione geografica, produsse un’altrettanta rapida decadenza di quello spirito pionieristico, che sta alla base della sopravvivenza delle città di confine. I discendenti dei fondatori, infiacchiti dall’eccessivo benessere, preferirono innalzare templi e rendere opulente le loro dimore, piuttosto che prepararsi alla guerra e finirono col credere che l’arte della diplomazia e del patteggiamento col nemico, fosse la panacea per il quieto vivere. Nel 480, quando Gelone, tiranno di Siracusa, chiamò a raccolta le città greche di Sicilia per decidere il destino dell’ellenismo occidentale nella battaglia di Imera; nel giorno stesso in cui Temistocle affidava le sorti dell’ellenismo orientale alla trappola di Salamina, una sola mancò all’appello e si schierò al fianco dei Cartaginesi: Selinunte. Ma essa doveva pagare a caro prezzo il costo di un tradimento protrattosi per tutto il V secolo.
Racconta Diodoro Siculo che, fino alla vigilia della catastrofe, il partito aristocratico si cullò in un’illusoria sicurezza, a dispetto delle proteste dei democratici, fedeli alla causa greca.
Nel 410, le cattive relazioni con Segesta arrivarono al punto di frattura, e Cartagine, costretta a scegliere fra l’amicizia delle due città, preferì Segesta.
Un’armata punica pose l’assedio a Selinunte e nel 409 la città venne presa, saccheggiata e data alle fiamme, nonostante la Grande Tavola Selinuntina (l’iscrizione monumentale posta nel tempio G) promettesse l’aiuto di una pletora di dei, per una grande vittoria contro i nemici. 16000 abitanti vennero massacrati e 5000 tratti in schiavitù; poco meno di 3000 trovarono scampo nella fuga.
Poco più di due secoli erano trascorsi dalla fondazione della città e tutti vissuti nella vergogna del tradimento.
Verso il 405, per iniziativa del coraggioso Ermocrate, rinacque dalle ceneri. Ma non riuscì a riacquistare l’antico splendore, e si trascinò penosamente, ondeggiando fra la diffidente amicizia di Siracusa e la pavida soggezione a Cartagine. Nel 250 a.C., le armate puniche la rasero al suolo, per evitare che cadesse in mano ai romani.
Secondo una leggenda locale, le ultime vestigia della città sarebbero crollate la notte della nascita di Gesù, nel corso di un violento terremoto.
In epoca cristiano-bizantina, piccoli gruppi di persone si insediarono sull’acropoli, ma nell’827, AI-Haedelkum il Sanguinario, comandante degli invasori saraceni, dopo un sanguinoso assalto, trucidò i superstiti facendoli bollire in grandi caldaie di rame.
Selinunte disparve dalla scena del mondo, fino al 1555, anno in cui il sito archeologico fu identificato da Tommaso Fazello.
I primi scavi vennero effettuati nel 1823, ad opera degli inglesi Harris e Angel.
I ritrovamenti sono stati innumerevoli, ma non ancora perfettamente interpretati.
Le iscrizioni sono rare, i riferimenti lacunosi e tuttora i templi non possono essere indicati che con lettere alfabetiche: come se una Giustizia Superiore si opponesse all’umano sforzo di sollevare il velo d’oblio, che ammanta i monumenti della città dannata.

Giorgio Maria Di Giorgio

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